Facendo una breve ricerca su Wikipedia apprendiamo che la "sticker art" è “una forma di street art in cui il messaggio o l'immagine sono veicolati da un adesivo”, mentre per "street art" si intendono quelle “forme di arte che si manifestino in luoghi pubblici, spesso illegalmente, nelle tecniche più disparate: spray, sticker art, stencil, proiezioni video, sculture ecc.”, insomma una definizione richiama l’altra e non ci sono molto d’aiuto per dare un nome a quello che facciamo da un po’ di tempo a questa parte, quindi troviamo la definizione di "stickering" e ci deprimiamo nello scoprire che non sarebbe altro che “è una strategia di marketing che consiste nell’affiggere enormi quantità di adesivi di piccole dimensioni raffiguranti il marchio dell’azienda in spazi pubblici e di grande affluenza”.
Definizioni a parte, utili per comprendersi ma per loro natura limitanti, sappiamo benissimo che la sticker art è diventato un fenomeno globale per artisti ed attivisti che cercano di dare massima visibilità alle loro idee attraverso un disegno, un logo, una icona, un messaggio che viene reiterato pubblicamente in maniera esponenziale e che è diventato un fattore comune di pratiche apparentemente opposte che si celano dietro etichette esotiche quali culture jamming o guerrilla marketing, tanto che oggi appare inutile chiedersi quanto lo sticker sia in grado di mettere in discussione l’invasività dei messaggi pubblicitari ovvero ne rappresenti una forma a basso costo, sarebbe un po’ come domandarsi se è nato prima l’uovo o la gallina...
Riteniamo invece più interessante approfondire che cosa c’è dietro tanta fatica e cosa muove tante persone in tutto il mondo (noi compresi) a praticare e a scegliere questa forma di espressione pubblica. Per farlo bisogna cominciare dalla fine, ovvero dall’inizio di quella che oggi è la sticker art comunemente intesa: Stati Uniti, anno 1989, Shepard Fairey, artista contemporaneo, grafico ed illustratore lancia la campagna “André the Giant Has a Posse 7’ 4’’, 520lb”, che in breve tempo invaderà le strade di tutto il mondo definendo un codice universalmente riconosciuto di fare street art, una campagna che nasce come "esperimento riferito al concetto di fenomenologia di Heidegger" e si evolve in uno dei brand di street wear più diffusi al mondo “Obey Giant”, la sintesi perfetta di connubio tra arte, strada, politica, propaganda, pubblicità che poi culminerà con la campagna presidenziale “Hope” e con il definitivo passaggio dalla sottocultura underground alle celebrazioni mainstream.
Facendo qualche passo indietro, analizzando alcuni degli elementi sottostanti a questo fenomeno che prescindono dall’esperienza di Fairey, quali l’autopromozione, il valore del “piccolo e bello”, il concetto di network, il voler essere alternativa al sistema dell’arte, etc. possiamo trovare un illustre precedente nella storia dell’arte contemporanea della sticker art nella “mail art”, risposta al desiderio di partecipazione a un lavoro comune frutto di diverse libertà creative individuali, nell’ambito della quale spicca una figura italiana che si spinse ben oltre, creando i presupposti per molte di quelle sperimentazioni che oggi ci vedono, nostro malgrado, protagonisti: Guglielmo Achille Cavellini, in arte GAC.
Nel 1971 GAC coniava il termine “autostoricizzazione”, risposta ironica e personale alla chiusura del sistema dell’arte e all’autoreferenzialità dei suoi codici volti alla negazione delle potenzialità creative dell’artista come individuo. Da questa esperienza, tutta incentrata sull’ossessiva e ironica esaltazione del proprio genio attraverso un’articolata strategia creativa auto promozionale, nascono una serie di iniziative indipendenti volte al contatto diretto con il pubblico, come la produzione di migliaia di sticker in pvc diffusi per mezzo mondo per promuovere il proprio centenario, abbinando al suo nome quello dei più importanti musei d’arte contemporanea seguiti dalla sigla “1914-2014”.
Una simile e radicale diffusione del suo pensiero, abbinata ad alcune originali azioni performative incentrati sul medium sticker (celebre l’immagine dell’artista ricoperto dalla testa ai piedi con i suoi adesivi celebrativi), scatenò un’immediata ed entusiasta reazione di consenso che si tradusse in nuove ed eterogenee forme creative che non aspettavano altro per esplodere e che ancora oggi vedono protagoniste nuove generazioni artistiche, individualità desiderose di un cambiamento nel modo di fare arte, non legato esclusivamente alla produzione personale, ma fortemente permeato da un processo comunicativo comune, partecipe, libero.
Sette lustri dopo, da questo illustre precedente e sulla scia del rinnovato interesse per il medium sticker quale nuova forma di street art, nasce StyckMyWorld, un progetto internazionale di “sticker combo” (la tecnica utilizzata per realizzazione di opere prodotte per mezzo di sovrapposizione di sticker diversi), un esperimento di creatività e interazione umana che dal 2006 dalle pagine di Flickr approda a Roma con un appuntamento annuale, una performance collettiva che vede coinvolti artisti e pubblico, impegnati insieme nel ricoprire un oggetto di dimensioni sempre maggiori (è già toccato a una vespa, una tavola da surf, una panda, un camper e una statua) con migliaia di sticker raccolti in ogni angolo del pianeta che trasformano così un oggetto di uso/disuso comune in un’opera d’arte unica, frutto del contributo dei tanti che a diverso titolo partecipano a questa eserienza ogni volta diversa e quindi irripetibile.
Traendo le somme si può concludere che lo sticker – anche se sembra un medium come un altro su cui esprimersi (una tela, un foglio di carta, un oggetto, etc.) – si distingue da qualsiasi altra forma artistica e nello specifico di street art per la sua capacità intrinseca di far partecipare attivamente il pubblico, che può sentirsi parte di una installazione artistica attraverso il gesto apparentemente banale dell’attaccare un sticker in uno spazio pubblico, un atto che conferisce all’opera/sticker una dignità inedita e lo differenzia da una semplice “figurina” che, come tale, può essere solo collezionata e quindi dimenticata nell’ego della proprietà del singolo.
In tal senso lo sticker è la forma più democratica di arte che conosciamo, il “piccolo principe” della street art, intesa come necessità viva, quella di un’arte pubblica, fruibile, effimera, libera, che ricomprende ogni tipo di performance che si sviluppa in spazi pubblici per intervalli temporali limitati.
Per tutto questo e per tanto ancora che non smetteremo mai di considerarci degli “sticker artist” al di là delle mode del momento.
Omino71
Stick My World
Roma, 2011